Questo racconto è uscito su Abbiamo le prove, che ringraziamo.
di Clara Mazzoleni
All’ultimo piano della villa le grandi finestre splendevano come specchi. La luce impietosa del mattino si riversava nella stanza. Io ero sveglia, nel letto che una volta era mio, col cellulare in mano. Lo chiamavo: lui non rispondeva. Da una settimana mi aveva lasciato, dopo cinque anni insieme. Fino a quel momento l’amore più solido e intenso della vita di entrambi. Lo richiamavo: continuava a non rispondere. Fumavo e avevo già voglia di piangere. Ma non volevo cedere al richiamo che mi tentava.
Nei giorni precedenti ero stata forte: avevo lavorato, ero andata a correre, avevo mangiato sano, mi ero presa cura dei miei capelli, avevo addirittura guardato un film di Antonioni, Il deserto rosso, e messo uno smalto dorato sulle unghie dei piedi. No, pensavo, mentre lo richiamavo per la terza volta. Il fumo si alzava lento verso il soffitto scrostato. Non devo cedere. Continuerò così. Guarderò altri film, troverò nuovi libri in grado di aiutarmi. Vicino al mio letto c’erano i soliti noti, quelli delle emergenze, che però questa volta non riuscivano a consolarmi. I diari di Cheever, con le struggenti scopate con la moglie Mary, i Martini che si bevevano insieme. La raccolta delle poesie di Carver – un suo regalo – con quella scritta per Tess Gallagher, quando lui si sdraia sulla sponda e immagina di morire e dice che la voglia di alzarsi gli viene soltanto pensando a lei.
Poi c’era Virginia Woolf, il diario, con la frase che a volte riusciva a rincuorarmi: “A ventinove anni non sono ancora sposata, sono una fallita, non ho figli, e sono anche pazza, altro che scrittrice”. Ma quanto suonava lamentoso alle mie orecchie, quel mattino, il suo compiangersi: già allora aveva Leonard alle calcagna, e poi non faceva che scrivere, e da dio, come sempre. Il successo sarebbe presto arrivato e cresciuto senza mai fermarsi, e di lì a poco avrebbe sposato Mr Woolf, e lui l’avrebbe amata fino alla fine, nonostante i tradimenti, le crisi e le scenate isteriche.
Mentre chiamavo M. per la quarta volta qualcuno di sotto aveva iniziato a salire le scale. Dalla lentezza con cui i passi si approcciavano ai gradini, uno alla volta, piano, oltrepassandoli con un grande sforzo, avevo riconosciuto mia madre. Arrivata in cima si era appoggiata al corrimano per riprendere fiato, attivando in me un pianto sfrenato, teatrale.
Perfettamente vestita e truccata, profumata di Chanel n.5, mia madre si era seduta sulla sponda del letto, dandomi le spalle, e aveva aspettato che smettessi, con sulla faccia un’espressione di pena per la quale avrebbe meritato in cambio, per tutte le volte che l’aveva avuta, che io gliel’avevo provocata, avrebbe meritato in cambio ricchezze e gioie di ogni tipo, che comunque non sarebbero bastate a ridarle indietro tutti gli anni bruciati dal dolore per una figlia infelice. Ma né gioie né ricchezze, comunque, circolavano più in quella grande casa che ormai dava l’impressione di cadere a pezzi.
Aveva detto: “è giusto che ti sfoghi”, e se n’era andata, impiegando un’eternità per scendere le scale. Era tornata dopo un po’ con un vassoio con tè caldo, yogurt, una mela sbucciata e una fetta di pandoro. Io li avevo appoggiati vicino al letto e le avevo detto che non sarei scesa per il pranzo.
Vivevo a Roma ormai da mesi, e da mesi non vedevo i figli di mia sorella, i figli di mio fratello e nemmeno mia sorella e suo marito, né mio fratello e la sua ex moglie (che comunque, ovviamente, avrebbe passato il Natale altrove) e neanche mio fratello minore. Fra poco sarebbero arrivati tutti, si sarebbero seduti intorno alla tavola imbandita, i bambini avrebbero scartato i regali. “Io capisco il tuo dolore”, mi aveva detto mia madre, ed era scesa di nuovo, un passo alla volta.
Ma mia madre doveva aver parlato con lui. Eccolo che saliva le scale con il suo passo trascinato. In piedi davanti al mio letto, col suo cardigan Missoni vecchio di trent’anni, iniziava con un discorso vago, sulla necessità delle donne di imparare a stare bene da sole, che man mano si trasformava in un’apologia della solitudine. Io rimanevo sdraiata, la testa rivolta al muro e non lo guardavo. Senza voltarmi dicevo: “Come puoi parlare di solitudine, tu e la mamma state insieme da quando avete diciannove anni e insieme avete fatto quattro figli e avviato una ditta” (e mentre lo dicevo pensavo a Leonard e Virginia, alla Hogarth Press: mi sembrava che tutti collaborassero alla creazione di grandi cose, fossero queste la casa editrice di T. S. Eliot o un’azienda di ristorazione collettiva).
“Abbiamo avuto anche noi i nostri problemi”, rispondeva lui. “Li abbiamo superati insieme … M., invece, ti ha già lasciato tante volte e non vuole costruire niente con te.” “Ma nemmeno io voglio costruire con lui”, blateravo. “Voglio solo che mi ami”, dicevo.
E invece sì, avrei voluto costruire: avrei voluto che lui, invece di lasciarmi, mi avesse proposto di fondare una casa editrice, un’azienda, un ristorante, un salone di bellezza, qualunque cosa purché insieme. Ma mio padre, forse irritato dalle mie bugie, diceva: “Se non vuoi costruire non è amore. È solo sesso, dipendenza dal sesso. Devi imparare a stare bene da sola”.
Allora mi innervosivo e gli gridavo che il sesso non c’entrava e che se in quella stanza c’era qualcuno fissato col sesso di sicuro non ero io. E allora lui diceva che ero un egoista, che stavo facendo passare un Natale di merda a tutti, che non me ne fregava un cazzo nemmeno dei bambini e che con quella cattiveria nel cuore davo a tutti loro un dolore più grande di quello che provavo io. Mi mi ero tirata le coperte sulla testa e non avevo detto nulla. Lui si era seduto per un po’ sulla sponda del letto. Poi mi aveva dato una pacca leggera dove pensava fosse la mia spalla, si era alzato e trascinando i piedi se n’era andato e alla fine delle scale aveva chiuso piano la porta, come per non svegliare qualcuno che dorme.
Io avevo fumato un’altra sigaretta e poi avevo continuato a piangere, piano. Dopo un po’ avevo sentito la porta aprirsi di colpo e tanti passi piccoli e disordinati salire le scale. Voci che bisbigliavano e si avvicinavano “di soppiatto” (così dicevano). Poi, raggiunto il mio letto le voci si fermavano. Attraverso il filtro rosso della lana vedevo quattro nanerottoli esitanti. Li salutavo simulando una voce festosa ma senza togliermi le coperte dalla testa. Loro, come al solito, iniziavano a frugare ovunque: per i bambini la mia stanza era il luogo più misterioso e intrigante della casa. Facevano domande sui disegni appesi alle pareti nel tentativo di farmi alzare.
“Zia vieni a vedere questo in mano alla principessa. Non mi ricordo: è un cavallino?”
Ma io, senza nemmeno alzare la testa, rispondevo: “È un unicorno”.
“Zia cos’è questo?”
“Questo cosa.”
“Vieni a vedere!”
“Descrivilo.”
Iniziavano a spazientirsi. Il più coraggioso, il più piccolo, aveva provato a tirarmi via le coperte. Le tenevo con tutta la mia forza, non volevo che mi vedessero in faccia. Quello che poteva sembrare un gioco non lo era, ed era chiaro anche a loro, perché le nocche delle mie mani ossute stringevano la lana con un’energia insana. “La zia è ammalata e non vuole contagiarvi”, dicevo con voce lamentosa. “Zia io ho già avuto la febbre, quindi sono immunitaria, voglio che a mangiare ti siedi vicino a me”, diceva la bambina. “Sì adesso arrivo, voi andate”, dicevo, e sapevo che sarebbero tornati, nella casa dei miei genitori nessuna porta può essere chiusa a chiave. Allora telefonavo a mia madre e le dicevo soltanto, con ferocia: non farli salire per nessuna ragione.
Ma la processione andava avanti. Ero uno strano Gesù bambino di ventotto anni, con un corpo ormai troppo lungo per quel letto da ragazzina, circondato da posacenere traboccanti, accendini, fazzoletti di carta fradici. Ecco mia sorella, i passi scattanti, tre gradini alla volta, la voce forte e acuta, con un piatto pieno di tartine al salmone. “L’hai chiamato?” mi chiedeva, piegando i vestiti sparsi sul pavimento e mettendoli in ordine nell’armadio. “Guarda che sono sporchi”, dicevo. “L’ho chiamato sei volte”, confessavo appoggiando il piatto di tartine vicino al vassoio della colazione, rimasto intonso. “Non chiamarlo più”, diceva ributtando i vestiti a terra. “Dopodomani ti passo a prendere e andiamo al centro commerciale”, ordinava. Poi si sedeva sulla sponda del letto e sospirava. “Forse se lo lasci in pace cambierà idea. È tornato tante volte”.
Mentre lo richiamavo per la settima volta e mi accorgevo che aveva il telefono spento, riconoscevo il passo potente di mio fratello maggiore. “Mi volete lasciare in pace?” gli dicevo. Portava in dono un piatto di lasagne. Lo appoggiavo insieme al resto e mi accorgevo che un angolo delle lenzuola era affondato nel tè. “Su con la vita”, diceva mio fratello spalancando la finestra. Poi rimaneva in silenzio, guardando fuori, mentre io congelavo.
Avrei voluto abbracciarlo. Ma rimanevo sotto le coperte. Pensavo a quella volta che era venuto fino a Cuveglio. Non aveva detto niente a nessuno. Aveva cercato su internet l’indirizzo della comunità, l’aveva trovata. Loro non l’avevano fatto entrare: ancora non potevo ricevere visite. Allora aveva lasciato una lettera per me. C’era scritto: “Che dopo il duro inverno, cominci la primavera” – era marzo. E poi: “Io c’ho messo l’anima, ora tocca a te”, e una data, quella della sua ultima gara di canottaggio.
Non mi era piaciuta quella frase. Ci aveva messo l’anima? Ma se poi aveva smesso! E come se mi stesse leggendo nel pensiero, mio fratello aveva detto, continuando a guardare fuori dalla finestra:
“Domani ore dieci Canottieri.”
“Ma a fare cosa? Domani è Santo Stefano.”
“Sono l’allenatore, ho le chiavi. Usciamo in canoa”, diceva, spalancando anche l’altra finestra.
“Ma neanche morta!”, rantolavo io, arrotolandomi nelle coperte.
Quando dopo sei mesi di comunità tornai a Galbiate, mio fratello mi regalò una serie di lezioni di canoa. Ci andai. Enormi occhiali neri, capelli biondo platino, giubbotto di salvataggio. Per motivi a me ignoti gli altri del corso erano bambini di dodici anni. Dimostrando grande pietà, dopo tre lezioni, l’istruttrice mi diede il permesso di uscire da sola. Remavo piano fino al ponte, gli psicofarmaci rendevano faticosa ogni attività fisica e dopo cinque minuti ero già estenuata. Raggiungevo i larghi pilastri, mi piaceva guardare il cemento bagnato, sentire il rombo delle macchine che sfrecciavano sopra di me. Il Monte Barro si specchiava nell’acqua, aveva il colore del mio smalto Chanel preferito, vert obscur, e sembrava fatto di muschio. Remavo ancora un po’, raggiungevo il centro del lago. Poi tiravo i remi in barca, mi accendevo una sigaretta e abbandonavo la mano sinistra nell’acqua densa, odorosa. Le cicatrici pungevano come se tanti piccoli pesci stessero mordicchiando la pelle.
Finalmente il pranzo di Natale era finito, sentivo il motore del Suv di mia sorella, le voci lamentose dei bambini in giardino. Adesso il telefono di M. risultava ora occupato. Ancora non lo sapevo, ma aveva appena trovato il modo per deviare – per sempre – le mie chiamate. Ancora piccoli passi sulle scale. Spensi in fretta la centesima sigaretta. “Zia”, era la bambina. “Dimmi amore”, dicevo da sotto le coperte. “Mi regali questa scatolina d’oro con i diamanti?” – la scatolina, di latta, con pietre preziose di plastica, era un regalo di M., come del resto tutto il ciarpame che riempiva la mia stanza. “Certamente, prendi tutto quello che vuoi.”
Poi il più piccolo era salito di corsa. Si era fermato davanti al mio letto: “Zia io voglio questo quadro”. Era un esperimento dei tempi dell’accademia d’arte: avevo rovesciato sulla tela un chilo di cera bollente e poi ci avevo versato sopra dell’acqua. Avevo dipinto quella crosta, bucherellata e ruvida, con smalti per unghie e vernici cangianti. Il risultato era una specie di vomito madeperlaceo.
“Davvero ti piace?”
“Sì”, aveva detto lui.
“A volte mi piacciono le cose che fanno schifo”, aveva detto.
Nel tardo pomeriggio ero scesa e avevo deciso di andare a messa con mio fratello minore e i miei genitori. Eravamo andati nella chiesa preferita di mio padre, a Lecco, con l’interno buio e spoglio e i mattoni a vista. Mia madre aveva iniziato a cantare, stonatissima. La sua voce mi stringeva il cuore. Ricominciai a piangere. Tutti mi guardavano, o forse era una mia impressione.
Guardavo mio padre seduto qualche sedia più avanti, la sua figura alta e magrissima, il modo perfetto in cui il cappotto usurato cadeva sul suo corpo. Durante il momento “scambiatevi un segno di pace”, mio fratello si alzò, lo raggiunse e gli strinse la mano. Gli occhi di mio padre si fecero lucidi. I suoi capelli erano tanti, ma grigi. La faccia stanchissima. Ripensavo alle mie grida isteriche, al folle discorso sul sesso. Pensavo all’eredità dei nostri errori, errori brevi in confronto alla durata della vita, radicati in un passato lontanissimo. Un’eredità che ci delimita, ci insegna chi e cosa non vogliamo più essere, eppure ci impoverisce, ci frena. Avrei voluto trovare il modo per liberarmene, liberare anche lui.
Poi sentimmo un tonfo dietro di noi. Una ragazza sui vent’anni stava distesa sul pavimento, come morta. Qualcuno voleva chiamare un’ambulanza, ma il padre e la madre si opposero con forza. Le sollevarono le gambe e dopo un po’ la messa riprese.
All’uscita cercai di incrociare gli occhi della ragazza per leggervi il segno di un qualche disturbo alimentare, malattia mentale, dipendenza. Ma quella camminava guardando il pavimento di marmo, sorretta da sua madre. Aveva una borsa di Louis Vuitton e stivali col tacco, non era neanche magra.
Quella sera poi, andai a una festa. Dopo tre Tennent’s finalmente l’aria si fece più facile da respirare. Nei selfie che ci scattavamo, la mia faccia era gonfia e bianchissima e spuntava da una vecchia giacca a vento blu scuro. Con la mia loquacità intrattenevo gruppi di persone: raccontavo aneddoti, descrivevo Roma e la sua vegetazione tropicale, i clienti della boutique di Piazza di Spagna dove lavoravo, le brutte figure fatte con gli intellettuali che mi sforzavo di inseguire e conoscere, una miriade di disavventure (lo sciacquone del bagno che esplodeva e mi faceva una doccia vestita, la mia coinquilina di cinquant’anni che pretendeva di usarmi come complice per mentire all’altra coinquilina – sua figlia, di tredici -, ecc.), trovavo persino il modo di rendere divertente lui, che per la seconda volta mi lasciava poco prima di Natale: “Che voglia risparmiare su un eventuale regalo? Eppure mi ha sempre regalato soltanto cazzate: libri e chincaglierie cinesi”. Ero l’anima della festa.
Mentre guidavo verso casa, completamente ubriaca, la macchina che attraversava il ponte a zig-zag – quello sotto al quale anni prima passavo in canoa – mi tornava in mente la fine di Il deserto rosso, quando Monica Vitti, parlando con un marinaio che non capisce la sua lingua, dice: “Io … sono stata malata … ma non devo pensarci … io devo pensare … che tutto quello che mi capita … è la mia vita … ecco.” E intanto cantavo a squarciagola Chandelier, stonatissima, e rischiavo di finire nel bosco, continuamente, ma riuscivo a sterzare, sempre, e il mio canto risuonava nella notte silenziosa, fredda e immobile come un cristallo nel buio, e usciva dal finestrino aperto, insieme al fumo, e lasciava nell’aria la sua scia, disperato e ridicolo allo stesso tempo.
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